Ci sono tutti – assassino, morti, una vittima che uccide – tranne lo Stato.
Un benzinaio ha dato fuoco (per un’ipotesi di gelosia, dice) a un clochard addormentato. Il proprietario di un ristorante ha sparato nella schiena al ladro. All’incredulo orrore per il primo fatto si mescola la spaccatura fra chi comprende l’esasperazione del ristoratore e chi ne condanna l’eccesso. L’occhio resta fisso sui fotogrammi dei fatti, ma questi sono la coda di un film lungo e cupo.
Il ristoratore – già vittima di incursioni – scende con il figlio per sventare una razzia annunciata dal sistema d’allarme. Il suo legale parla di colluttazione e colpo partito per sbaglio. Un vicino di casa racconta altra storia, che culmina nella sua domanda “l’hai preso?” e nella risposta “sì, l’ho preso”. Valuterà la magistratura se la seconda versione sia reale o parto di un’ingenua, esagerata e balorda esaltazione dell’amico davanti alle telecamere (fenomeno non trascurabile e pericoloso).
Qualche riflessione è possibile. La legge tutela il diritto di reagire ma lo limita, per evitare che un altrui illecito si trasformi in libera sparatoria, in pena di morte privata in un paese che non la prevede in Corte d’assise. Una parte dell’opinione pubblica e di quella politica argomenta che chi si introduce nella casa altrui e mette a repentaglio beni e vita di chi ci abita è cosciente di ciò che fa e perciò il diritto di difesa può anche sfociare nell’esito più drammatico.
Proviamo allora a immaginare una norma simile approvata e applicata. Un nostro figliolo adolescente, all’incauta prima sbronza della sua esistenza, si scosta dal gruppo di amici e entra in un cortile per fregare un pomodoro che rinfreschi la bocca arsa. L’uomo in casa, già derubato, vede lui, vede il gruppo fuori e spara. Uccide. Tecnicamente scatterebbe la allargata legittima difesa. Oppure il padrone del pomodoro, prima di far fuoco, avrebbe dovuto domandare “fai pipì o rubi”? Che farà la famiglia del morto (magari entusiasta fino a quel giorno del nuovo articolo di codice penale)? Chiederà una punizione esemplare o dirà che è giusto così, riuscirà a dire che il ragazzino – il loro figlio – i soldi per i pomodori li aveva?
Le leggi si possono rivedere, ma con il cervello, non con il dolore e l’ira. Si può discutere fin dove può salire il tetto della legittima difesa (posso sparare a cinque energumeni gonfi di cocaina ma disarmati che stanno aggredendo i miei figli in casa o devo affrontarli a mani nude?), ma non può uno Stato di Diritto, per quanto inefficiente o assente, autorizzare la fucilazione alle spalle quando lui stesso condanna a pene minime chi lucrando sulla Sanità ammazza indirettamente più persone.
Altra riflessione è doverosa da parte di chi è tout court contro le rivoltellate domestiche. Non è detto che chi spara contro l’uomo già in fuga sia un freddo giustiziere, un esaltato, convinto che la sua proprietà gli assegni un diritto naturale di lugubre “spazzino” della società. Possono agire altri meccanismi di tensione e irrazionalità, una paura già insita in lui per precedenti esperienze e un maniacale terrore gonfiato ad arte da grida televisive di cinici commentatori ed esponenti politici, consapevoli che più paura c’è più si cerca un protettore. Quell’uomo che non vuole ammazzare preme però il grilletto come se gli stessero in tanti urlando che fa bene, che è un eroe, che “è l’unico modo per difendersi”. E’ una mente in confusione, non necessariamente bruta, tormentata da cori oscuri, usa la fucilata come un flacone di ansiolitico.
Allora entra in gioco il problema della detenzione di armi. Un’arma dovrebbe essere estratta sapendo usarla, con la fredda consapevolezza di che cosa sta per produrre. Non è così. La pistola o il fucile, per il solo fatto di esserci, sono diventati uno scudo spesso inutile e un malinteso coraggio, una ingannatrice potenza che diventa incontrollabile se la mente è alterata da emozioni, fino a un impeto più distruttivo che assassino in senso stretto. Dunque (ammesso e non concesso che interessi economici lo consentano) limitarne la diffusione? Lo potrebbe fare uno Stato che garantisce davvero controllo del territorio, prevenzione, protezione. Non può uno Stato che – disperdendo per canali inutili o illeciti il denaro pubblico – non ha mezzi per assicurare Sicurezza e Salute: non ti difendo e ti impedisco di attrezzarti per farlo da solo, pur entro certi limiti. Se un’azienda privata di vigilanza non offre il suo servizio secondo buone regole non si giustifica poi con la scarsità di “uomini e mezzi”, perché il cliente le chiede che ci sta a fare e perché incassa i soldi, poi interrompe il contratto. Noi, con le tasse, paghiamo un servizio fondamentale sempre più sbriciolato, affidato all’abnegazione di singoli e gruppi di uomini in divisa e in borghese.
E’ qui, è nel territorio abbandonato – oltre che nel buio di una mente – la tragedia del clochard. L’assassino confessa l’impressione che la vittima insidiasse sua moglie. Tanto basta per toglierlo di mezzo, nel modo più vile e feroce, nemmeno affrontandolo viso a viso. “Posso farlo”, pensa. Può anche perché è bombardato di messaggi sulle possibilità di farla franca, non essendo catturato o, se catturato, di giocarsi sconti d’ogni sorta. Ed è avvolto da cori che gli trasmettono il disprezzo e l’ira, il valer meno d’una vita quando è quella di chi sta in basso, quando è la vita degli ultimi e dei penultimi.
Nell’America degli Anni ’70, il regista Elia Kazan racconta nel romanzo Gli assassini (scritto 45 anni fa) di un sergente dell’aeronautica che freddamente ammazza il ragazzo hippy della figlia e poi confessa: il procuratore e il giudice sono spaventati dall’idea che i benpensanti mal vedano una condanna pesante contro un militare che ha “soltanto tolto di mezzo” uno straccione spacciatore. Quel clima sta ribollendo qui, tra cittadini stanchi e mestatori instancabili.
La consuetudine di oggi d’entrare nelle case mentre la gente dorme (se ci sono loro ci sono anche ori e contanti), nei locali sapendo che a due passi ci sono i gestori, tra le telecamere a viso scoperto, o l’avvicinarsi al clochard con la benzina discendono anche da uno Stato che non c’è, che annuncia “l’invio di cento militari a Milano (cento, che divisi per turni fanno nella realtà una ventina a turno, ma nella comunicazione paiono un grande sforzo). E sono la colonna sonora del territorio abbandonato da una classe politica ingolfata in se stessa, autoreferenziale, che depenalizza, inventa giochi processuali per sfoltire carceri che non sa e non può – per colpevole miseria finanziaria – rendere umane, rispettose dei minimi diritti civili. Che fa appello all’unità per risolvere i problemi: i suoi, non quelli di chi subisce e di chi sbaglia e va punito nel rispetto della sua dignità.
Questo vuoto – aperto con l’aiuto di tutti i cacciatori di voti – lascia entrare i ladri nel ristorante, spintona il ristoratore fino a sparare nella schiena, consente che un uomo che ha perso tutto dorma in strada e che un vigliacco incapace di affrontare a viso aperto uno fra i più deboli gli dia fuoco senza paura di sé e di domani.