“Le rose di spine di Cristo / Fervose come opache / Di ogni cosa funesta / Queste sono le rose della mia via”. Via trafitta, dall’infanzia fino alla branda di manicomio, quella di Felice Fischetti (1931-2005), contrabbandiere, minatore, legionario, operaio. Poeta sempre.
Fischetti lasciò la “città dei matti” in Collegno quando la rivoluzione accesa da Franco Basaglia divenne legge (seppur maldestramente gestita): passò in una comunità e da qui all’ appartamento condiviso dove lo conobbe una giovane psicoterapeuta, Rita Brescia, che ne ricompone storia e lirica in Il poeta di spessi cammini (ed. La Vita Felice), biografia e romanzo, itinerario di una mente e respiro di un’umana avventura.
Nato nel 1931 a Guardia Lombardi (Avellino), Fischetti frequenta le elementari, legge Pascoli e Carducci, Ungaretti ma anche Jules Verne. Il padre, ferramenta e negoziante di lane, per non andare a morir soldato lasciando la famiglia, si procura febbri che lo uccidono. A 12 anni Felice, uomo di casa, è “apprendista” contrabbandiere, innamorato di Graziella che sogna di sposare. Dopo la guerra, per costruire futuro, si fa minatore migrante, tra Belgio e Francia, per i locali un”ladro di lavoro”. Lo torturano incubi, ragni che gli strisciano addosso e attraverso i pensieri, questi lasciati soli dal silenzio di Gisella, che non risponde alle lettere: s’è sposata e se n’è andata in Canada. La più potente spugna sul dolore è la Legione straniera: un’Algeria di addestramenti, bordelli e amicizia, deserto e sangue. In quella distruzione scrive le prime poesie salvifiche.
Prima di partire da Guardia Lombardi il ragazzo si era misurato con un cipresso sul colle: poterne avere le radici. E’ sradicato quando torna. Raggiunge il fratello a Torino: con lungimirante intuito, a Natale, la cognata gli dona una penna stilografica. Nel centro della città Felice osserva vetrine e folla e se stesso. Cerca rinascita nel lavoro di manovale, ma lo scavano l’emicrania, voci minacciose, premonizioni atroci (dai fili che maneggia nasceranno armi micidiali?), sospetti sugli altri. Si difende dall’assedio sfasciando tutto e, licenziato, chiede soccorso in un ufficio di polizia. Due guardie lo accompagnano a Collegno, dove i gatti sono l’unico sentimento che taglia l’uniformità di cortili, corridoi, stanzoni, volte della colossale Certosa.
Fra le antiche mura e nella società irrompono Franco Basaglia, le prese di coscienza dell’orrore. Per lui come per altri, dal 1992, vengono la comunità, il Gruppo Appartamento, la psicoterapeuta che con la macchina per scrivere dà un senso di futuro alle sue poesie. Poesie che colpiscono Sergio Sut, che ne diventa editore, mentre Tonino De Bernardi perfora passato e presente con la potenza delle riprese Rai e Natalia Ginzburg riconosce nel suo filtro poetico l’effetto-onda su “vetri e rottami abbandonati sul fondo”. Fischetti li osserva confortato e inquieto, finché problemi polmonari lo portano via nel 2005. La cremazione incenerisce gli “spessi cammini” fisici e diffonde quelli lirici.
Questo il riassunto freddo della la storia d’un uomo. Molto altro e molto di più è il libro di Rita Brescia, psicoterapeuta, autrice di poesia (I fili dell’anima), saggistica (Anais Nin:l il vizio di scrivere), narrativa (La Città Sottile). Il poeta di spessi cammini è l’imponente e snello cipresso caro a Fischetti: radici nel terreno e nel mistero, il tronco che punta in alto, le foglie che ascoltano e sussurrano o gridano. C’è in queste pagine il buio in cui si tesse e si frantuma il filo fra sé e gli altri, ci sono la realtà sociale e quella psichiatrica, quella di chi è impigliato e scruta passaggi di libertà, la solitudine del dolore e la coercizione della “cura”, l’intensità di una sigaretta e lo svanire e impennarsi delle certezze. E la poesia che da tutto ciò germoglia.
All’ultima pagina si riprende il libro per tornare a incontrare un amico, conoscente, bizzarro viandante dal quale si intuisce di poter sapere di più, di lui e di Nietzsche in via Po a Torino, di lui e di Dino Campana a Scandicci. Una guida strana, certo, dal lessico lieve e scolpito, intransigente nella sua forza che curva la parola secondo l’animo: “Io vivo tra i prati d’infranti / Come le foglie galleggiano / All’orlo della vita…”.
Rita Brescia più che narrarne la storia accompagna Felice a casa nostra con garbo, porgendo con i passi in miniera, nel deserto, tra le vetrine, la sua poesia. Dove il confronto e la paura, la fatica e l’attesa svelano l’innalzamento dell’io: “Stolta è la vita, tra gli stolti della bufera / Il passo che non sfiora l’arena / Alle canute teste”. Così cominciamo a comprendere l’immensa sorpresa dei sepolti vivi quando risorgono al mondo: “Io vivo d’armonia sinfonica / Vivo per edicere al mormorio del vento / La vita è candida allo strazio penoso / Io vivo tra gli sterpi cammini…”.