In Italia non si fa una legge che regoli la fine della vita sapendo che l’eutanasia fai da te sopperisce. Fabo morto in una clinica svizzera ci fa riflettere anche su questo.
Durante la battaglia “su” Eluana Englaro, i cronisti che hanno voluto camminare sotto le contrapposizioni di fede, opportunità politica, emotività, hanno visitato ogni luogo del dolore: linde case di cura per pazienti vegetativi, rianimazioni, centri per l’assistenza ai terminali, solitari appartamenti dove si gestivano sofferenza e disperazione in un buio della speranza. Lì perde ogni certezza anche chi al dolore altrui è assuefatto.
Ma si impara anche un fai da te tanto disperato quanto inattaccabile. Può essere una finestra lasciata spesso aperta per cambiar l’aria in un inverno gelido, letale per polmoni già debilitati: poi si rifiuta l’accanimento terapeutico di antibiotici e altri farmaci. Può essere la morfina che sale in proporzioni legittime rispetto a dolore e assuefazione, ma letale per il respiro.
Non è il caso di perdersi in un manuale della fine non cruenta e “regolare” fabbricata da singoli pianti. Ma è il caso di ammettere che tutto questo lo sa perfettamente anche chi discute e non legifera in alcun senso, pizzicato fra una richiesta emotiva, una filosofica, una religiosa, una di bieca opportunità. E’ facile addossare il vuoto alla Chiesa, facile e sviante: è ovvio e legittimo che il credente sia contrario (fermo restando che il credente – dopo le crociate – non tenta di imporre Cristo ad altri, semmai vuole o dovrebbe offrirlo), è legittimo che si faccia sentire, che opponga argomentazioni. Non è legittimo che se ne tenga conto in quanto voto e non in quanto alta riflessione. L’assenza di ascolto, rispetto, decisione, di una legge che regoli autodeterminazione e fine vita – anche la più restrittiva – significa scaricare su un fai da te doppiamente crudele eppure praticato e consentito.
L’Italia è un paese pericoloso. Se già di per sé è orrendo pensare a una struttura addetta a produrre morte, ancor più lo è immaginarla in un paese dove si specula sui bisognosi vivi: figuriamoci che business sarebbe la morte (del paziente oncologico spaventato, del depresso, del vegetativo che tiene bloccata un’eredità). Una legge così delicata e terribile – dove tutti sono voci e non voti – avrebbe senso soltanto attribuendo compiti allo Stato e mai al privato, come avviene per interruzioni di gravidanza e trapianti. E lo Stato dovrebbe divenire arbitro, mano tesa, artefice del confronto con la vita, il dolore, la rinuncia, la morte. Non è una questione di solo diritto, bensì di filosofia della vita e del suo abbandono, di tolleranza reciproca e di limiti, di pietà e obiezione. E’ una questione morale. Forse per questo si è incapaci di provarci davvero.