Bullismo e campagne pubblicitarie. Allo spot dello Stato dà una lezione quello dei ragazzi della Luchino Visconti di Milano. Due filmati: uno per forza visto in tv anche da chi ha lo zapping compulsivo, l’altro visto per scelta da chi lo clicca in rete: otto milioni di visualizzazioni in pochi giorni.
Nello spot del Ministero di Istruzione, Università e Ricerca un gruppo di arroganti sfigati, all’interno della scuola, blocca malmenandolo un compagno, reo di non “passare i compiti”, e con un pennarello lo marchia in fronte. In aula un’insegnante simil-Raggi impone prudente autorità: “Siete impazziti?”. Dal fondo della classe un futuro “uomo politico a sua insaputa” mette le mani avanti: “Prof. … io non c’entro”. La prof, l’autorità, se la prende con lui: assistere e tacere è essere complici. Il messaggio immediato è: non tacete. Quello che scatta automatico è: noi non vediamo nulla, fate voi gli informatori.
Lo stringato e fortemente narrativo spot dei ragazzi della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano si apre nello spogliatoio di un campo sportivo. Un ragazzo si lava con disperata foga la fronte. Un compagno di squadra lo vede e scopre uno spigoloso fallo con annessi tondi pitturato rozzamente dagli aggressori, gli avversari della partita imminente. Nella sequenza successiva tutta la squadra, ragazzi usciti dalla quotidianità – uno robusto come il Garrone del Cuore, un altro con grandi occhiali – si schierano sul prato davanti ai bulli con lo stesso disegno in fronte. “Fai squadra contro il bullismo”, dice lo slogan. La scritta iniziale, quella che intendeva inviare in modo più soft il Ministero, qui era netta e giocata sullo scarabocchio in fronte: “I cazzi degli altri sono anche cazzi tuoi”.
Il confronto è disastroso. Nell’intenso spot in Rete, quello della Visconti, sono i giovani a scoprire e poi (si lascia intuire) concertare l’atteggiamento, mettersi in gioco, fare appunto squadra. Il messaggio è rapido e potente: non si finge di non vedere, si interviene, si sta uniti, si è tutt’uno con chi è preso di mira, gli imbecilli non hanno di fronte uno sfortunato giocattolo ma gente con più palle di loro, e di questa gente fa parte chi credevano vulnerabile.
Nello spot di Stato i messaggi sono tre. Il primo, flebile, è: siete complici se non denunciate. Gli altri due sono atroci. Uno: dentro la scuola, sotto responsabilità di adulti che non vedono, accade un fenomeno contro il quale tra quelle mura (come anche tra quelle di casa) non si riesce a educare. Due: se ti dissoci e mi dici che tu non hai a che fare con la violenza io lascio perdere i peggiori e cazzio te, brutto fifone, così posso dire d’aver fatto qualcosa senza mettermi in urto con i più pericolosi. La povera solitaria insegnante non pensa un attimo al branco (e si può capirla se ha letto I ragazzi del massacro di Scerbanenco), perciò se la prende con il più fragile dei cattivi, una sorta di “pentito” pubblico ora candidato a prossima vittima in una scuola che non vedrà la vendetta e chiederà ad altri ragazzi di evitarla.
Si può obiettare che la reazione proposta dai ragazzi del Visconti (memori forse delle efficaci tecniche d’impatto di Oliviero Toscani) è poco pacifista, apre anzi la via a uno scontro fisico che può degenerare in rissa (anche se le facce degli altri, vigliacchi per assunto iniziale, non lo fanno supporre). Ma quel che passa non è inno alla violenza contro la violenza, è piuttosto un richiamo alla realtà: badate che ora lo scontro è alla pari.
Per ottenere la stessa immediatezza, la frantumazione del senso d’onnipotenza del gruppo contro il singolo, lo Stato non aveva strumenti così giovani. L’unico modello che forse sarebbe venuto in mente a buona parte dei gestori di potere l’hanno per fortuna evitato: l’insegnante che avverte: “Siete impazziti? Non sapete che è il nipote del boss don Tano?”.