Suo figlio è morto suicida a 16 anni durante una perquisizione della Guardia di Finanza che cercava hashish. In una società bisognosa di colpevoli di fronte a ogni lutto, subito si sono levate voci indignate per la sproporzione tra il fatto e la procedura. Ma la madre del ragazzo, dicendo “Io li ho chiamati”, ha indicato con semplicità il dolore vero, la vita e la morte. Notizie approssimative, un titolo di tg, uno stupore sono sufficienti per lanciarci, con fretta liberatoria, nella caccia a responsabili che rendano comprensibile l’ignoto, accettabile qualcosa più immenso delle nostre percezioni. Questa donna, in chiesa, ha dedicato a suo figlio la preghiera più alta: la limpidezza.
Se ne può parlare con rispetto, innanzitutto per la vittima, quando il clamore e l’orrore naufragano tra nuove notizie, quando dell’episodio si hanno più angolazioni. La famiglia, dopo dialoghi, forse liti, di certo ansie, si era rivolta alla Guardia di Finanza, allo Stato dunque, per porre una barriera fra il giovane e le droghe leggere. Chi è intervenuto, su richiesta e in presenza della madre, è stato colto di sorpresa dal gesto quanto lei. I commenti erano stati duri, soprattutto sull’opportunità della perquisizione, un magistrato minorile aveva detto: “Se mi avessero informato, non li avrei autorizzati”. Legittimo, rispettabile, e facile col senno di poi. Esperti e paraesperti si erano mossi sull’emotività del momento. Va dato atto alla Guardia di Finanza di non aver tirato fuori la richiesta partita da casa fino a che non l’ha fatto la madre.
Adesso che sappiamo di più proviamo a rileggere noi stessi. Abbiamo tutti negli occhi il volto devastato di Stefano Cucchi, conosciamo un iter processuale rigoroso ma lento, la tenacia motivata della sorella, i depistaggi che possono sviare ma non cambiare la fotografia di una realtà. L’errore emotivo è sovrapporre quella tragedia ad altre che “possono” vagamente, magari forzandole, combaciare, fornire responsabili.
Noi non guardiamo gli eventi, guardiamo – e spesso trasmettiamo – ciò che qualcosa dentro di noi ci spinge a vedere negli eventi. Due poliziotti di una Volante hanno fermato per un controllo un’ombra notturna. Quell’ombra ha sparato, loro hanno risposto e l’hanno ucciso. Dopo – DOPO – si è scoperto che era il terrorista Amis Amri. Sono diventati eroi “perché avevano ucciso Amri”. Ma agenti di polizia, carabinieri, finanzieri di pattuglia sono grandi uomini e grandi donne PRIMA, quando ogni giorno, per ventiquattr’ore vanno in giro a fermare gente che non si sa chi sia, come reagirà, se e quanto ucciderà. Se proprio vogliamo parlare di eroi, i due agenti erano eroi mentre intimavano l’alt, mentre si difendevano e ci difendevano, non quando si è saputo chi era e che cosa aveva fatto il controllato. Se al posto di Amri ci fosse stato un minorenne con un po’ di hashish e, a differenza del ragazzo di Lavagna, una pistola impugnata e una diversa angoscia nel sangue, una volta che avessero reagito, di fronte alle foto della vittima su Facebook con una chitarra in mano, metà di noi li avrebbe chiamati assassini. Ma nel buio gli agenti avevano fatto la stessa cosa.
A questo ci educhiamo da soli perdendo l’abitudine a riflettere, a questo ci educa la rozza politica nazionale con commenti tesi a raccogliere paure, o esaltazioni e consensi elettorali, dibattiti sulla pesantezza della droga e mai su quella della solitudine. La mamma del ragazzino suicida ci dice con pacata chiarezza che la scelta di una via (possiamo discuterla in eterno senza saperne il cammino) e non della conclusione è sua. E ci dice quanto siamo vergognosamente rapidi a costruirci l’idea che ci indigna, rasserena, spaventa, quanto siamo ingiusti verso chi resta e chi se n’è andato. Sorpresi dalla morte, cerchiamo colpevoli e ignoriamo il dolore. Lei, straziata dalla sofferenza, non ne è stata travolta.