Si è celebrata la memoria di quell’orrore che in Istria e in Dalmazia vide oltre diecimila italiani deportati in campi di concentramento jugoslavi, uccisi o buttati vivi con i morti nelle foibe e contò oltre 300 mila esuli tra il 1943 e il 1954, quando il Memorandum di Londra consegnò definitivamente la zona B alla Jugoslavia. Una tragedia che per decenni è stata insieme pianta, gridata e a lungo anche ovattata, poi riconosciuta in tutto il suo inferno.
Ha detto il presidente della Repubblica, Mattarella, che “le foibe sono parte della nostra storia”. Il presidente del Senato, Grasso, ha aggiunto: “ferite che non possono rimarginarsi completamente”. Ma si può scavare e trovare il cammino della rimarginazione. E’ nella voce letteraria di uno dei grandi scrittori del ‘900 che – con il peso della lacerazione e dell’esodo – ha narrato vite sconosciute dentro la Storia, fatti e sentimenti, fratture dell’animo. Fulvio Tomizza, nato a Materada di Umago nel 1935 (morto a Trieste nel 1999) ha rappresentato non soltanto una altissima narrativa (lo scoprì venticinquenne Niccolò Gallo) ma anche una limpidezza straordinaria di sguardo, un rigore morale dettato da una formazione insieme laica e religiosa.
Immerso nella cultura triestina (se ne andò dalla Jugoslavia con gli ultimi esuli), forte di quella d’origine (la stessa di Giani Stuparich e Pier Antonio Quarantotti Gambini), Tomizza esordisce nel 1960 con Materada, romanzo che dipana con dolorosa poesia l’atmosfera che prepara lo sradicamento: “Addio ai nostri morti, disse forte una donna”. La ragazza di Petrovia (1963) è la vita nei campi profughi sul Carso, Il bosco di acacie (1967) è la staffetta tra morte e vita nella nuova condizione di esuli.
Studente a Capodistria, figlio di un benestante aperto alla generosità verso tutti ma perseguitato per la sua condizione agiata, lacerato tra la sofferenza familiare e gli impeti giovanili, tra un mondo e l’altro, fra un’ideologia e un altra, Tomizza aveva respirato e ha portato nella narrativa ogni fiato di quella tragedia. Nella Trieste di Svevo la affronta carico di colpe oscure: “Provavo il bisogno di fare i conti con la mia gente, col mio sangue. Allora non sapevo di essere uno scrittore d’istinto, forse un istinto un po’ antico, primitivo”.
Il doppio sbando, essere slavo in Italia e italiano in Jugoslavia (già lo narrava per i tempi del liceo di Capodistria,) lo incanala nella ricerca di una pacificazione. Dove tornare (con determinazione senza punto interrogativo) si intitola il romanzo del rimetter piede a Materada anni dopo, acquistando una casetta in pietra che diverrà il ritiro dove scrivere altre opere, tra le quali il maestoso, epico romanzo La miglior vita, dove la storia di un villaggio istriano, dalla fondazione nel 1630 fino all’esodo postbellico del secolo scorso, è scandita dai registri parrocchiali e dal susseguirsi dei sacerdoti.
Emblematico anticipo del futuro bisogno di pacificazione sono, nella Miglior vita, le pagine del benestante amico di tutti, a tutti aperto, con tutti generoso, che offre un carretto al sacrestano per andare a recuperare il corpo del figlio partigiano titino ucciso. Lo stesso benestante (nel quale è riconoscibile il padre dell’autore) che dalla sua stessa gente sarà perseguitato fino a che la morte entrerà nel suo animo sfiancato.
Della propria storia, di quella di tanti istriani, Tomizza ha raccontato cuore e irrazionalità, ideologie e basse spinte, alti sacrifici e aneliti sconfitti, fino alla tragedia delle foibe e dell’esodo. Fu considerato troppo “morbido” da una parte degli esuli. Lui che era il più esule di tutti proprio per la tenace ricerca dei sentimenti dentro la Storia, per la generosità del pensiero, per l’incessante ricerca del filo tra passato e presente.