Il festival di Sanremo deve quest’anno rivelare se stesso nel confronto con un anniversario ghiotto e avvelenato per il cinismo dello spettacolo: il suicidio di Luigi Tenco. Nato per le canzoni, Sanremo è divenuto via via un appuntamento tv che deve sorprendere e far parlare di sé, ma anche specchio della società e suo tiro al bersaglio, facile e spesso sprezzante. Come si comporterà con una tragedia umana – individuale e condivisa -che si porta dentro da cinquant’anni, da quando Tenco si uccise nella camera d’albergo? Il silenzio è impossibile, ogni parola di troppo è la sconfitta di chi la pronuncia.
In Ciao Amore Ciao Tenco cantava “il grano da crescere, i campi da arare. / Guardare ogni giorno / se piove o c’è il sole, / per sapere se domani / si vive o si muore”. Chi vorrà in questi giorni ricordarlo (per affetto, dovere, ammirazione o retorica) abbia presenti altri versi che lui conosceva e forse erano ignorati dal pubblico e dai critici cui si rivolgeva: “Luna tenera e brina sui campi nell’alba / assassinano il grano / … / Ai villani che guardano piangono gli occhi. / Per quest’anno al ritorno del sole, se torna, / foglioline bruciate saran tutto il grano. /… / E’ un mattino che toglie ogni forza / solamente svegliarsi e girare da vivi / lungo i campi. / … / Perché il sole e la pioggia proteggono solo le erbacce / e la brina, toccato che ha il grano, non torna”.
Sono versi di un poeta nato trent’anni prima di Tenco a una trentina di chiloemtri da dove lui è sepolto. Tenco si uccise in albergo a Sanremo il 27 gennaio 1967. In una stanza d’abergo a Torino, il 27 agosto 1950 (l’anno dopo sarebbe nato Sanremo) si era ucciso il poeta di quelle altre parole, Cesare Pavese. Che su una copia dei suoi Dialoghi con Leucò scrisse: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.