Stia attento chi s’avventura per sterrati di campagna: potrebbe piombargli addosso Alfonsina Strada, classe 1891, professione ciclista. L’hanno riportata a correre le straordinarie pagine di Più veloce del vento (El-Einaudi Ragazzi, seconda edizione) di Tommaso Percivale.
L’hanno davvero restituita al sellino perché un conto è attingere agli archivi e raccontare un personaggio, altro conto è prenderlo per mano, accompagnarlo nel domani, metterlo a suo agio ricomponendo asperità e disfide della sua epoca, fargli rivivere la sua epopea con nuovi spettatori complici. Romanziere che scrive per i ragazzi (senza far di loro una categoria di lettori a sé), autore di Ribelli in fuga (2013) giunto alla quarta ristampa, Percivale canta in questo libro una donna che corre più veloce non solo del vento ma del tempo che vive.
Alfonsina nasce nel 1891 a Castelfranco Emilia in una famiglia di braccianti quasi o del tutto analfabeti. Quando ha dieci anni, il padre, Carlo Morini, uomo insieme d’affetto e cinghiate, segna il suo destino – sorpassare le grettezze del mondo – portando a casa per se stesso un ferrovecchio di bicicletta. Di nascosto la bambina, sempre meno a disagio nel suo corpo robusto, impara a pedalare e a stare in equilibrio su due ruote, dove si scopre di “essere vivi”.
Di parola in parola, di frase in frase, la guardiamo crescere, esausta fra studio, lavoro di casa, abili mani di cucitrice con la madre, ma stregata da quella “macchina”. Sono anni nei quali, soprattutto nelle campagne, è assurda e indecorosa una donna che al ritmo dei pedali solleva gambe nude. Già l’incipit del romanzo – dove la vestizione della ciclista è scandita dal controcanto delle Regole di base per l’abbigliamento delle fanciulle nel 1910 – ci trasferisce nell’atmosfera densa della crescita e del cammino di Alfonsina (morirà a 68 anni nel 1959).
Eccola correre per le campagne, sfidare l’amico più caro, superare due professionisti in allenamento, racimolare con la fatica di ago e filo i soldi per una sua bicicletta da corsa usata. Eccola ancora, incoraggiata da personaggi allora celebri, al parco del Valentino di Torino, dove le donne cicliste non creano scandalo e dove lei batte la già acclamata Giuseppina Carignano. Da qui al Giro della Lombardia e poi, unica donna, al Giro d’Italia del 1924: non si tratta di arrivare prima, ma di percorrere senza cedere tutti i 3613 chilometri. Li percorre, trasformando in ammirazione, tappa dopo tappa, i sarcasmi della partenza.
L’arte narrativa di Percivale mai ci lascia allontanare dal ciglio della strada, partecipi mentre cade, mentre si ferisce, mentre sostituisce il manubrio con un manico di scopa, quando è timida o cocciuta o sfrontata, quando ascolta voci sprezzanti o impaurite ed è già oltre. Sbirciamo anche noi orgogliosi i complimenti dello zar Nicola II, spiamo l’incontro con Luigi Strada, bottegaio che sposa e con il quale si trasferisce a Milano. Con lei affrontiamo Armando Cougnet, direttore della Gazzetta dello Sport, e il suo editore Emilio Colombo, inventore e organizzatore del Giro.
Per duecento pagine stringiamo i denti con Alfonsina e godiamo della sua forza come ragazzi. E, adulti, reimpariamo a leggere con la passione dei ragazzi.