Rosario Fiorello contesta l’abbuffata di morte violenta nei programmi tv del pomeriggio. Ha ragione, ma il nodo non è soltanto la fascia oraria, è anche come le tragedie sono trattate (e con quali effetti) tra ridicole “esclusive”, insistenze da stalker, tuttologi a vario e vago titolo.
La strage a puntate è una realtà: negli ultimi giorni una ragazza data alle fiamme, un sedicenne che con un amico ammazza i genitori, un uomo finito a bottigliate mentre cerca di placare una lite fra coniugi, una donna accoltellata dal marito che subito dopo va a giocare alle slot, un’altra cancellata dall’uomo che poi si uccide.
La tv d’intrattenimento rovescia immagini e parole sacrificando il rigore dell’informazione al gioco da salotto in un’Italia dove tutti si sentono allenatori di calcio e pubblici ministeri. A farsi passatempo pomeridiano o serale non è la fantasia – come nel gioco da tavolo Lie Detector del secolo scorso, ispirato agli incastri d’indizi di Agatha Christie e Arthur Conan Doyle – bensì la morte vera, che nello spettacolo si svuota della pietà autentica e del dolore intimo. Le vittime non sono tragedie individuali e sociali, si disperdono nello schiantarsi e precipitare di Willy Coyote sconfitto da Beep Beep Road Runner (nel 2018 compiranno ottant’anni). Il continuo risorgere di Willy oggi è il morto nuovo che scalza quello già logoro di ieri.
Lo svuotamento della morte – la morte della Morte – è nelle parole che avrebbe detto il sedicenne assassino dei genitori: “Ho fatto una cazzata”. Non sminuiva: questo per lui è stato. Una frase del genere – pronunciata da lui o creata dai media – sgorga comunque dall’assuefazione alla morte senza mistero né sacralità. Nel fiume sociale che siamo scorre la stessa abitudine del Bar Tivù: non ci si inchina davanti a una vita sopraffatta, ci si agita intorno a una scena del crimine, a indiscrezioni, Dna, impronte, reperti, psicopatologie, in un teatro dove la Morte non c’è, c’è un “oggetto” morto con scolpiti addosso tanti o pochi dettagli della sua fine.
Il perché della morte – non quella giudiziaria, bensì quella umana, religiosa per chi ha fede – si dissolve trasfigurandosi in spettacolo. Scrive Herman Koch nel romanzo La cena (Neri Pozza editore): “Quando le persone hanno la possibilità di avvicinarsi alla morte senza esserne toccate, non se la lasciano sfuggire”.
Anche nella realtà essa è sempre meno il Grande Vuoto, l’irreparabile. Diventa uno spartiacque, l’attimo della spallata che disintegra il disagio soffocante di chi la infligge. Quel gesto, quell’istante, anche quando premeditati, è come non avessero nella vita dell’assassino un prima e un poi. Il prima (intesa, gioia, lotta e pace, conforto, fiducia) è stravolto e dissolto dalla debolezza di fronte alla difficoltà, al rifiuto. Non c’è dopo perché il colpo di straccio sul presente annienta il passato, è l’ultima pagina di un libro orrendo e finalmente chiuso. Salvo il caso di suicidio immediato, che elimina ogni futuro, il prossimo libro (confessione o fuga, processo e carcere, indifferenza e sogni) non sarà un seguito, sarà una storia nuova, brutta o bella, che si comincia a scrivere dal dopo-omicidio. A meno che il delitto non sia stato soltanto un inciampo, una “cazzata”.
Nessuno pare avulso dalla vita intesa come condivisione quanto questi assassini che hanno perso o non hanno coltivato, già molto prima dell’atto, la consapevolezza dell’esistere “con” gli altri. E dal Bar Tivù non hanno ricevuto il dolore della Morte, soltanto il fascino delle prove nascoste, degli errori di percorso, delle intercettazioni. Hanno visto un film e nel film hanno visto travestirsi di forza la loro fragilità e rivalsa.
Non si può invocare il silenzio degli esperti veri o improvvisati, si può però chiedere a loro e a chi cura i programmi di capire il profondo di ciò che commentano. Lo spettacolo della cronaca – proprio come l’omicida – ha smarrito il senso della Vita e della Morte e, a differenza del cinema migliore che nelle emozioni fa riflettere, ne ha fatto un prodotto usa e getta, un gioco di società e di share, dove non c’è posto per la Cultura, intesa non quale “sapere tante cose” ma quale bilancia del riso e del pianto, di sé e degli altri. Se la ascoltassimo, quella Cultura porgerebbe a tutti – scrittori, lettori, conduttori, ospiti, intervistati, spettatori – il garbato monito di Luigi Malerba (Il pianeta azzurro, Garzanti): “Nella morte degli altri c’è rispecchiata anche la tua e l’ombra del morto si confonde con la tua ombra”.